Giorgio Di Genova

GEOLOGIA DELL’ALTROVE

Giorgio Di Genova

 

 

Nel nostro secolo il concetto di pittura ha subito una vera e propria rivoluzione, soprattutto per quella sostanziale modificazione attuata in corpore picturae nel corso del tempo a partire dal 1912, cioè da quando Braque prima, Picasso e Gris poi inserirono nei loro quadri materiali oggettivi con funzione pittorica.(1) Dal momento di questa irruzione resa possibile dalla volontà dei cubisti di sganciare la pittura dal tradizionale dominio dell’imitazione di ciò che si vede (imitazione che è a tutto scapito di ciò che si sa), per appunto superare la sfera sensoriale a vantaggio di quella mentale,(2) l’arte s’è fatta onnivora, come ho già avuto modo di indicare altrove. (3) Tuttavia, affinché tale onnivoracità dell’arte contemporanea potesse determinarsi, c’era bisogno di propedeutici scardinamenti nei confronti della Weltanschauung della pittura cosi come s’era consolidata nei secoli precedenti. Era, cioè, necessario “rompere” la concezione illusionistica dello spazio pittorico, sottrarre il disegno alle regole della prospettiva e usare il colore non più in direzione imitativa, ma soltanto simbolica, secondo i dettami di quella necessità di restituire ritmi formali o plastici propri alla personale inventiva e perciò non più condizionati dall’imperativo della mimesi. tale rivoluzione è stata avviata dal cubismo, che a fatto compiere alla pittura il definitivo passo verso il realismo pensato, per dirla con Léger, il quale lo contrapponeva al realismo visivo.(4) Era logico, quindi, che l’ontogenesi della suddetta onnivoracità avesse (probabilmente in seguito suggestioni dovute al manifesto tecnico della scultura futurista di Boccioni, non a caso pubblicato nella primavera del 1912 con la data dell’11 aprile) la sua culla nel cubismo, primo tra le avanguardie artistiche a rivolgere l’attenzione alla mentalizzazione del linguaggio pittorico.(5) Ben presto, però, all’interno della mentalizzazione stessa del linguaggio è cresciuta l’istanza di fisicità, che ha fatto inglobare alla pittura i più diversi materiali (basti pensare alla pittura Merz di Schwitters), cosicché dal collage s’è passati all’assemblage, che ha finito con il coinvolgere ampiamente anche la scultura. Pertanto oggi si possono realizzare quadri con i più disparati materiali, come ormai la storia dell’arte contemporanea sta ad attestare.

In Italia, soprattutto dall’immediato dopoguerra, s’è ormai consolidata una tradizione pittorica au delà de la peinture, che per lo più affonda le radici nell’humus dissodato, oltrechè dalle avanguardie artistiche, dalle muffe, dai sacchi, dalle plastiche, dai legni e dai ferri di Burri e in qualche caso dai dècollages di manifesti attuati da Rotella quasi in parallelo ai manifesti dèchirès del francese Hains.

L’opera di Giovanni Leto s’inserisce a pieno diritto in questa tradizione a partire dal 1982.

E’, infatti, il 1982 l’anno di volta della ricerca di Leto. E’ in esso che, dopo esperienze di pittura evocativa (La notte, 1963; Composizione, 1965), con qualche tentazione meccanomorfa (Paesaggio urbano, 1964), esperienze poi confluite in una liricizzazione dapprima non immemore di certe espressioni proprie all’arte autre (Parete, 1968) e in seguito rivolta alla definizione di una nuova spazialità, nonché di nuovi esiti di luce (Tracce, 1973), comincia a delinearsi l’interesse per il collage  e per gli “elementi in superficie”, come dichiara appunto il titolo di una sua opera del 1982.

Elementi in superficie è la prima epifania del materiale au delà de la peinture all’interno del “campo” pittorico, un “campo” ormai reso quasi neutro dall’estremizzazione di quella nuova spazialità e di quella nuova luce a lungo indagata negli anni precedenti. Gli “elementi” in questione non sono altro che la fisicizzazione di quelle nuances che compaiono nel citato Tracce e di quelle concrezioni pittoriche che hanno ruolo protagonistico in Forme del Fantastico del 1980. In ambedue i dipinti sono tre, e perciò non mi sembra affatto un caso che gli inserti oggettuali di Elementi in superficie siano appunto tre.

I collages del 1982 mi paiono significativi, al di là del loro ricadimento di fisicità pittorica, per altri motivi ancora. Si prendano, ad esempio, Memorie al presente e Come segni di un diario. In ambedue è presente quell’orizzonte che costituirà il leit-motiv della successiva produzione di Leto, ma che tuttavia non è assoluta novità, perché esso, e per di più sul fondo nero come nelle due opere testé citate,già compare in un’opera realizzata vent’anni prima, La notte. Ecco, La notte, dove la mescolanza di terre e colori all’olio già la diceva lunga sull’insopprimibile bisogno di dare materia alla pittura, o se si preferisce, di “materializzarla”, è un’opera che dichiara esplicitamente l’interesse di Leto per gli effetti notturni, i quali costituiscono una delle due costanti polarità della sua ricerca, rimanendo l’altra ovviamente la luce diurna. Tra questi due poli, anzi, a ben guardare, oscilla l’immaginazione poetica di Leto.

Così nel suo discorso pittorico ritroviamo quell’alternanza di giorno e di notte che viviamo nella realtà. E anche questa alternanza era già in nuce nella produzione degli anni Sessanta, con ribaltamenti cromatici abbastanza sintomatici.(6) E volendo, Memorie al presente e Come segni di un diario riuniscono, colle loro metà chiare e le loro metà scure, il giorno e la notte in un’unica soluzione. Ma queste due opere sono filologicamente importanti perché in esse comincia a precisarsi, seppure ancora sul piano, l’assemblaggio materico, per un verso, e per altro verso la bipartizione del quadro in terreno-paesaggio e fondo-cielo.

Le basi per il landscape oggettuale sono qui gettate, con una forte pressione della memoria e del racconto emblematicamente memorialistico, attuato per frammenti, lacerti, scintille vagolanti e coaguli del ricordo, che poi trapasseranno dall’immagine e dal collagismo planare alla astrazione stratificata e al bassorilievo materico di carta e panni rielaborati. Probabilmente in queste due opere collagistiche non è del tutto assente qualche inconsapevole suggestione dei Sacchi di Burri rimediati attraverso i décollages di Rotella, ed è forse per tale ragione che Giovanni Leto ha abbandonato questa esperienza, tentando di recuperare l’aura lirica di Parete (1968) e di Tracce (1973), ma con la volontà di salvaguardare le conquiste già fatte: soprattutto la bipartizione orizzontale dell’opera, che si fa accuratamente rettilinea, tuttavia senza annullare il rapporto cromatico (zona chiara sotto, zona scura sopra), né le immagini proiettive sospese nello spazio. Si vedano, a tal riguardo, due opere del 1984, quali La memoria in agguato e Macchie di umido, ora nella collezione Guarino.

Ebbene, in esse la suddivisione in zone, una superiore più scura e una inferiore più chiara, anche se attenuate nei contrasti al punto da essere da misteriose penombre, non solo viene scandita da una retta, ma si  amplifica nei rapporti zonali per la verticalità del formato. Contemporaneamente i “cieli” di questi paesaggi mentalizzati fino al limite estremo dell’astrazione ripropongono immagini fantasticate, più precisate in La memoria in agguato (cavallino bianco, angelo cadente) e più intuite in Macchie di umido (cavallo bianco con cavaliere, suo contraltare scuro che per la sua piccola dimensione, finisce ad un insetto intravisto in una macchia di Rorschach).

Anche se Macchie di umido sembra rifarsi alle teorie che dall’antica Grecia a Leonardo hanno investito le macchie di stimoli per l’immaginazione visiva, l’opera mi sembra denunciare un disagio di Leto nei confronti della spazialità pittorica sino ad allora sperimentata. Non è, perciò, un caso che subito dopo il pittore arrivi a quell’estrapolazione della tela dal telaio, caricandolo contemporaneamente di “pittura” in proprio (Composizione 1, 1984-85). Non si tratta di una rottura, ma di un conseguente progresso. La lateralizzazione della tela dipinta nei confronti del telaio arricchito di colore è allo stesso tempo la lateralizzazione del telaio-supporto nei confronti della tela: una bipartizione “altra” nell’ambito della fisicità dell’opera, ma anche una nuova definizione di spazialità, che, da un lato, contraddice quella tradizionale del quadro (tela estrapolata) e, dall’altro lato, acquisisce quella del reale (vuoto all’interno del telaio). La finzione della pittura e la verità dello spazio reale si confrontano, entrando in palese frizione. Nel mettere a nudo lo spazio finto della tela, Leto contemporaneamente mette tra virgolette (nella fattispecie, pittoriche) lo spazi reale, che viene così incorniciato dalla pittura.

Il ribaltamento spazio-pittura dovette lì per lì soddisfarlo, se Leto l’ha poi addirittura duplicato in Composizione, realizzata a ridosso di Composizione 1. Ma il dissidio spazio-fisicità permaneva, in quanto, avvertendo sempre più la pittura come presenza, Leto sentiva lo spazio reale come assenza e quindi negazione della pittura.

Il tentativo di portare a soluzione tale dissidio si concretizza in Corda del 1985. È quest’opera una sorta di ricerca della centralità dello spazio-pittura fisicizzata. Ormai al telaio ricoperto di stoffe colorate e di colore s’è sostituita la corda, che supera la costrittiva e ripetitiva rigidità del telaio. La duttilità della corda permette a Leto di attuare la circolarità del quadro, che, ancorché spiralica, si presenta come l’esatto opposto della quadratura del cerchio, sempre inseguita e mai trovata.

Ma Corda contiene in sé un elemento pieno di futuro, molto più della serpentina di corda contrapposta a coagulazioni di pigmenti colorati e neri presenti in Ritmi (1985), che a ben guardare è una verticalizzazione in versione fisicizzata del groviglio pittorico che attraversa orizzontalmente composizione del 1965. Il rovello dello spazio come assenza, questa volta nell’ambito del pittorico e non più del reale, fa riemergere l’interesse del nostro per la notte. Nascono cosi Notti palermitane 1 e Notti palermitane 2, ambedue opere del 1985, nelle quali c’è un tentativo di creare un fondo come quinta, dietro cui s’intravede del bianco allusivo alla parete, e nel contempo di trasformare le coagulazioni di pigmenti colorati dialoganti con pezzi di corda in veri e propri cumuli di stoffa e carta che s’ergono, ancora molto timidamente, sulle notturne quinte nere a mo’ di montagnole.(7)  

Il 1985, comunque, è l’anno delle progressive messe a punto. Dall’esperienza di Corda, Leto, oltre alla malleabilità del materiale usato già con sovrapposizioni di carta, ha tratto l’indicazione fondamentale della straordinaria suggestione plastico-cromatica delle stratificazioni, già in nuce nell’adesione delle spirali della corda. È il momento dell’intuizione della possibilità di creare una spazialità altra, senza dover rinunciare all’amore per il colore e all’esigenza per una pittura di impositiva fisicità. L’intuizione dapprima si concretizza nello spazio — in questo caso delimitato dai telai dipinti e fasciati che cosi diventano definitivamente cornici — come irruzioni di stratificazioni in carta e/o stoffa, stratificazioni che si orizzontalizzano sul fondo dipinto, finendo per determinare vedute paesistiche insieme fisiche e metafisiche, allusive di un mondo deserto e misterioso, che si può definire tranquillamente mondo dell’Altrove. In questo sconosciuto pianeta pittorico, tuttavia, il giorno e la notte continuano ad alternarsi, come attestano Orizzonte con cornice dipinta e fasciata (1985) e Notturno blu (1985); mentre l’altro tempo, quello epocale, ha accumulato depositi su depositi, che hanno formato paesaggi riccamente variati. Nell’addentrarsi in questo mondo dell’Altrove Leto ha subito avvertito il bisogno di liberarsi della finzione pittorica come finestra ritagliata sulla parete, secondo la concezione di L.B. Alberti, e di conseguenza ha eliminato le cornici dipinte e fasciate. E immediatamente ciò che l’ha affascinato è la ricostruzione, o meglio lo scandaglio della geologia di questo mondo dell’Altrove, che in metafora rispecchia il nostro mondo, sempre più in pericolo di divenire una sterminata pattumiera e quindi restare deserto di qualsiasi forma di vita. Nascono cosi, nel 1985 Pagine gialle, Orizzonte trasparente, Orizzonte bianco, Orizzonte alfa, Orizzonte gamma, e altri Orizzonti, tutti fascinosi landscapes dell’immaginato pianeta dell’Altrove di Giovanni Leto, che certosinamente ha intessuto su tela o su legno, usati come supporti, “salsicciotti” di cartapesta, talvolta misti a stoffe e in un caso a plexiglas (Orizzonte trasparente), ma sempre disposti l’uno sull’altro a formare serrate stratificazioni di una geologia altrettanto immaginaria. È con questo discorso che l’artista siciliano s’è imposto all’attenzione della critica nazionale.(8) L’onnivoracità propria alla creatività “geologica” di Leto s’è rivolta prevalentemente alla carta, ora quella dei giornali, ora quella dei rotocalchi, ora quella degli elenchi telefonici (Pagine gialle), e persino ai manifesti, con non pochi inserimenti di stoffe colorate per movimentare pittoricamente le stratificazioni geologiche di queste “terre di nessuno”, come sono state pertinentemente definite da Marcello Venturoli.(9)

In questi paesaggi dell’assenza Leto ha individuato il topos di quel meccanismo coercitivo che sta alla base dell’attività creativa e che la psicoanalisi ha definito coazione a ripetere.(10) Da questa matrice nascono gli orizzonti della sua produzione, che ora, come alte maree, s’alzano improvvisamente fin quasi a lambire il lato alto del quadro, e specialmente quando il pendolo dell’immaginazione di Leto batte le ore della notte (Orizzonte alfa, 1985, Orizzonte del castoro, 1986). Ma sin dal 1986 l’inquietudine spaziale del pittore di Monreale rimette in discussione, all’interno della stessa coazione a ripetere, la spazialità e la fisicità stessa di questo modo di far pittura. Ecco, allora, che nascono Rombo nel 1986 e Piccolo rombo nel 1987, Onde, Terre del fantastico e Crollo, tutte opere del 1987, in cui c’è un tentativo di trasporre il discorso dalla terra al mare (e marina vera e propria è Onde), c’è lo scarto di Terre del fantastico, opera che nella sua maggiore adesione alle crepe di un terreno inaridito rischia di diventare un parallelo dei  Cretti di Burri, e c’è infine l’impasto sedimentato di materiali eterogenei, troppo memore di certe esperienze informali, quelle più matereologiche, alla Dubuffet, per intenderci.

Se Terre del fantastico prepara il “terreno” a Sentieri orfani 2 (1987), Crollo mi sembra fare altrettanto al già citato Senza titolo dello stesso anno. In quest’opera c’è la prima avvisaglia di un’animazione pluridirezionale delle stratificazioni. Pertanto, dopo opere per così dire più canoniche (e mi riferisco  a Orizzonte nero, 1987,  e a Orizzonte incenerito, 1987-88) dove tuttavia si evidenzia una volontà di ottenere nuove soluzioni cromatiche, addirittura serotine per quanto attiene a Orizzonte incenerito, Leto si abbandona a nuovi tentativi. Sembrerebbe che abbia paura che la coazione a ripetere faccia perdere pregnanza al suo discorso.

E’ un timore, questo, che assale spesso gli artisti (specialmente quelli abituati a soffrire nelle loro ricerche), quando raggiungono un alto risultato di fisionomizzazione e avvertono che ciò che fanno è troppo poco sofferto. Essi temono, insomma, che la facilità con cui riescono a realizzare variazioni sul tema messo a fuoco in lunghi anni di faticose ricerche possa impantanarsi nella cifra meccanica, nella maniera, come in effetti accade a chi non è profondamente monodico al punto di riconoscersi appieno in un unico soggetto, o modo espressivo.

Catastrofe (1987-88), vera e propria filiazione di Crollo, e il contemporaneo Sentieri orfani 4 sono frutto di questo timore. Le rotture morfologiche e le intrusioni di elementi piatti con forti propensioni geometriche, che contraddicono il fermento materico del bassorilievo pittorico, sono un atto di volontà esorcistica, più che un dettato della sensibilità estetica. Che in queste opere qualcosa non funzionasse se n’è accorto lo stesso autore. E infatti ha immediatamente smesso di proseguire su quella strada, lastricata di catastrofici sentieri orfani, per parafrasare i titoli delle due opere in questione, titoli, tutto sommato, davvero rivelatori, quasi inconsciamente Leto avesse inteso restituire attraverso essi le difficoltà del momento in cui furono realizzate le opere. Tale sentimento della catastrofe e del crollo deve avere attizzato in Leto una sorta di ribollimento interiore che s’è ripercorso sulla struttura della sua ottica “paesaggistica”. Cosi, dalle stratificazioni tettoniche geologiche egli è passato ai sommovimenti del mare, resi naturalmente attraverso media espressivi conquistati nel 1985. E nasce la serie riferita alla Cresta d’onda, nella quale viene recuperata la precedente esperienza di Corda sulla scorta delle successive esperienze attuate negli Orizzonti. La circolarità di Corda in queste metafore delle onde è come impazzita per quell’intrico dei cordoni cartacei che arriva addirittura a scansioni intestinali. I movimenti peristaltici, per così dire, delle onde assimilano pertanto la consolidata fisicità del “costruire” di Leto al visceralismo, quasi l’artista volesse trasferire il suo spiccato senso geologico dal fuori al dentro, cioè dallo spazio che è esterno all’uomo allo spazio che è interno ad esso.

Nella serie in questione forte è il ritorno del rimosso informale, quello appunto di più impositiva organicità nell’ambito del materico oggettualizzato, di cui uno dei massimi rappresentanti fu nelle ultime sue opere Bernard Requichot, che, com’è noto, morì nel 1961 a soli 32 anni. All’epoca parecchi pittori spremevano il tubetto del colore direttamente sulla tela. In piena stagione informale Requichot, a suo modo, materializzò nello spazio questa forma di deiezione pittorica. Ebbene, qualcosa di simile sembra oggi fare Leto con le sue serpentine di carta nelle quattro prove intitolate Cresta d’onda, nelle quali si nota un’insolita esuberanza cromatica degli sfondi e in qualche caso delle aggrovigliate masse tubolari (Cresta d’onda n. 1, 1988). La stesura monocromatica e compatta dei fondi per contrasto allude a una trasparenza atmosferica, una trasparenza ovviamente del tutto astratta in contrapposizione alla fisicità prepotente del convulsivo sgomitolarsi della massa cartacea.

Siamo agli antipodi di quel tentativo dell’anno precedente (Onde) di rappresentare il mare. Lì la trasparenza era tentata in corpore chartae. Se si considera che Leto aveva tentato di ottenere la trasparenza sin dal 1985 in Orizzonte trasparente, nel quale aveva usato il plexiglas, allora va riconosciuto che non è del tutto trascurabile questo aspetto della sua ricerca, di tanto in tanto riemergente.(11) Ma l’uso del colore in molti così perentori, anche se giustificabili per le loro finalità organiche,(12) ha subito creato problemi di spazio, che non si sono risolti neanche con l’attenuazione della cromia delle masse di carta di Cresta d’onda n. 2 e Cresta d’onda n. 3.

Già, perché tutto il discorso di Giovanni Leto, com’è logico sia per un paesaggista, anche se eterodosso come lui, è sempre questione di spazio, e sull’invenzione di “uno” spazio si fonda. Ma lo spazio, si sa, è difficile da essere dominato nelle due dimensioni proprie al quadro, specie quando l’istanza della fisicità è avvertita tanto perentoriamente, com’è per Leto. Il quale deve aver pensato che, per uscire dall’impasse della costante paura di cadere nel ripetitivo insignificante (in fondo la serie Cresta d’onda non è che una variante sul tema degli Orizzonti), può essere utile abbandonarsi a quella vertigine materica che era cominciata a montare con i ribollimenti dello sgomitolarsi che va da Cresta d’onda n. 1 a Cresta d’onda n. 4, al fine di rompere le dighe che impedivano al continuum materico di dilagare su tutta la superficie, fino a toccare quel lato del quadro già agognato in altre precedenti opere, cioè fino a raggiungere l’horror vacui. Tale abbandono si comincia a realizzare nelle opere succedanee alla serie suddetta, cosicché la Cresta d’onda si fa subito Lago di carta.

Nelle opere che fanno montare fino all’all over il fitto tessuto dei meandri delle “corde” di carta la metafora acquatica continua, con le sole eccezioni di Scrimolo rosso  e di Tracce rosse pagine rosa, il primo, come già notato, riedizione nell’ambito dell’horror vacui della bipartizione verticale, ed il secondo, sorta di riequilibramento della vertigine labirintica di Lago di carta. Il rosso, tuttavia, continua a persistere come eco della precedente fase ricca di valenze organiche. Questa presenza di tracce di colore si attesta al centro delle labirintiche movenze della superficie determinate dalla sapiente agglomerazione dei tubolari in carta. Sembrerebbe che Leto, in tanto vorticar multidirezionale dei suoi labirintici bassorilievi, cerchi ancora una volta, dopo l’esperienza di Corda, una centralità utile a farlo orientare nuovamente. L’uso del vinavil per bloccare l’insieme delle tessiture ottenute con queste iperboli in carta del filo di lana finisce con l’imbalsamare, per così dire, l’opera con questa specie di invetriatura trasparente (ancora un omaggio alla trasparenza), determinata dalla colla stesa in superficie come quella vernicetta che un tempo si usava spennellare sui dipinti ad olio.(13)

Leto deve aver percepito all’istante questo risultato di imbalsamante invetriatura che finiva col congelare la pregnanza fisica dei suoi lavori. Infatti ha intitolato Glaciazione 1 e Glaciazione 2  due dei suoi all over, senza tradire la metafora acquatica di base, dato che le glaciazioni hanno sempre a che fare con l’acqua o con i suoi sostituti.

L’inquietudine spaziale e inventiva, o, per meglio dire, l’irrequietezza plastico-pittorica di Giovanni Leto con queste opere sembrerebbe essersi acquietata, avendo raggiunto una dimensione di eternità, sempre per metafora.

La geologia dell’Altrove ha svelato i suoi ghiacciai eterni. Ma non c’è da fidarsi di uno spirito perennemente insoddisfatto dei traguardi raggiunti com’è quello di Leto. E’ per questo che mi aspetto quanto prima il disgelo, con esiti che solo l’immaginazione del nostro pittore siciliano può prevedere. Anzi, probabilmente, già sta elaborando.

Note

1 Mi riferisco a Natura morta con fruttiera e bicchiere, in cui Braque fece per la prima volta uso del papier collè per indicare il cassetto e il piano di un tavolo di legno, a Natura morta con sedia impagliata, in cui Ricasso inserì un pezzo di tela cerata con sopra stampata la trama della paglia intrecciata, ed a Il lavabo, in cui Gris incollò addirittura un pezzo di specchio nella parte superiore dell’opera. Tutt’e tre le opere sono state realizzate negli ultimi mesi del 1912.

2 Per i cubisti si trattava di evitare così la finzione ottica, basata appunto sulle false restituzioni ottiche delle immagini dipinte. Proprio nel 1912 Olivier Hourcade, riferendosi ai cubisti, osservava: “L’apparenza esteriore delle cose è transeunte, sfuggente e RELATIVA. Perciò si deve scoprire LA VERITA’, e smettere di fare olocausti ai graziosi effetti della prospettiva o della mezzaluce… Si deve cercare la verità e desistere dagli olocausti alle banali illusioni ottiche […]. Il pittore, quando deve disegnare una tazza rotonda, sa benissimo che l’orlo della tazza è una circonferenza. Quando disegna un’ellisse, perciò, non è sincero, sta facendo una concessione alle menzogne dell’ottica e della prospettiva, sta pronunciando una menzogna deliberatamente” (cfr. La tendance de la peinture contemporaine, in “Revue de France et des Pays”, Parigi, febbraio 1912).

3 Cfr. il mio testo Quando la carta da supporto si fa protagonista, in cat. Fabriano  carte1986: Dimensione collage,  Fabriano, Palazzo del Buon Gesù, 21 dicembre 1986 – 31 gennaio 1987. Edizioni Bora, Bologna, 1986, pp. 42-45.

4 Cfr. F. Lèger, Les origines de la peinture et sa valeur reprèsentative, in “Montjoiel”, nn. 8 e 9/10, Parigi, 29 maggio 1913, p. 7 e 14-29 giugno 1913, pp. 9-10. 

5 Nel suo Pensèes et rè flexions sur la peinture (in “Nord-Sud”, Parigi, 1917) Braque, dopo aver scritto: “I sensi deformano, la mente forma. Lavorare per perfezionare la mente. Non c’è certezza alcuna se non in ciò che concepisce la mente”; “ Un pittore che tenta di fare un cerchio farebbe solo un anello. Forse la sua vista può soddisfarlo ma egli avrà dei dubbi. Il compasso gli ridarà la sua certezza. Anche i papiers collès nei miei disegni mi hanno dato una specie di certezza” e “Il trompe-l’oeil è dovuto a un evento aneddotico che produce il suo effetto attraverso la semplicità dei fatti”, asseriva: “I papiers collès, l’imitazione del legno – e altri elementi della medesima natura – da me usati in certi disegni, producono anch’essi il loro effetto attraverso la semplicità dei fatti, ed è questo che ha indotto la gente a confonderli con il trompe-l’oeil , di cui essi sono esattamente l’opposto. Anche loro sono semplici fatti, ma creati dalla mente e tali da costituire una delle giustificazioni a una nuova figurazione nello spazio.”

6 Tanto per rimanere nell’ambito delle opere citate, La notte (1963) e Paesaggio urbano (1964) mi pare evidenzino tali ribaltamenti. Infatti, nel secondo dipinto il nero, che era cielo nel primo, diviene groviglio paesistico e, viceversa, i toni terrosi e bruni, che nel primo costituivano il paesaggio, in Paesaggio urbano si fanno cielo.

7 Volendo, in Notte palermitane 2 si riscontra un residuo della già considerata lateralizzazione del telaio in quelle stecche nere che serrano la tela ai due lati, prendendo di essa il colore notturno e crescendo in basso fino a creare una specie di piedini, quasi l’opera anziché destinata alla parete dovesse essere poggiata in terra. Va, inoltre, notato che in quest’opera la bipartizione si verticalizza, così com’era accaduto in Ritmi . Del resto, Leto nella sua accanita ricerca di risolvere il rovello spaziale insiste ancora sulla verticale, come dimostra Frammento della notte del 1985. Questa tendenza al verticale e alla conseguente bipartizione verticalizzata riaffiorerà ogni qualvolta il pittore siciliano si sentirà a disaggio nella sua ottica paesistica orizzontale: si vedano, al riguardo, opere come Pozzo e Senza titolo del 1987, nonché Scrimolo rosso del 1988, tanto per fare alcuni esempi.

8 Ricordo ancora la sorpresa avuta da me e da altri colleghi di fronte alle tre opere di Leto esposte nello stand di Ezio Pagano all’Expoart di Bari nel 1985. E la sorpresa fu tanto maggiore in quanto a tutti noi Giovanni Leto era del tutto sconosciuto.  

9 Cfr. cat. della personale tenuta da Leto alla Galleria Hobelix di Messina dal 5 al 18 ottobre 1985. Venturoli nel suo testo di presentazione definisce Leto ”un grande ordinatore di rinfuse, un felice architetto di discariche”.

10 La coazione a ripetere (Wiederholungszwang nella terminologia freudiana) è un comportamento tipico dell’inconscio, derivante dagli impulsi istintivi, che, come è noto, per natura determinano automatismi di ripetizione. Ora, essendo nell’inconscio che l’ontogenesi della creatività affonda le sue radici, è chiaro che anche l’arte non sfugge ai dettami della coazione a ripetere, come numerosi artisti stanno a testimoniare, e alcuni (per esempio Mondrian, Capogrossi, Albers, Morandi, Warhol, Opalka) più manifestamente di altri.

11 Ovviamente esso è da collegare con quel sostrato di lirismo già espresso nel passato, tra il 1968 ed il 1973. Il fatto che tale sostrato periodicamente reclami, anche dopo la svolta materica del 1985, i suoi diritti come trasparenza porterebbe a pensare che, al di là dei risvolti eidetici, ci sia una sorta di trasposizione di tecniche pittoriche perdute con i nuovi modi espressivi. Per chiarire, la velatura pittorica non poteva più essere praticata dopo il 1985, essendo il discorso principalmente basato sulla fisicità. Allora i tentativi di restituire trasparenza attraverso cartapesta, pigmenti e plexiglas potrebbero essere interpretati anche, e addirittura, come “velature” materiche.

12 Alla luce dell’ammasso viscerale insanguinato di Cresta d’onda n. 1  non si può fare a meno di interpretare come macchie ematiche i rossi che appaiono nelle altre tre opere della medesima serie.

13 Era un’operazione di rifinitura e ritocco che i pittori attuavano in genere il giorno avanti a quello dell’inaugurazione, sui quadri già appesi. Da questa usanza è derivato il termine, ancor oggi in uso, di vernissage.               

Bibl.: Giorgio Di Genova (a cura di), Giovanni Leto – Geologia dell’Altrove, ed. Mazzotta, Milano, 1988