Francesco Carbone

GIOVANNI LETO / DI UNA NUOVA MEMORIA DELL’ARTE

Francesco Carbone

 

 

L’esercizio dell’intelligenza, cominciando dall’uso del linguaggio, non può essere isolato dalla sua origine operazionale. Così facendo, l’uomo ha umanizzato uno spazio la cui presa di possesso mentale ha seguito passo per passo una presa di possesso effettiva.

La conoscenza della terra è stata pertanto manuale e pedestre prima ancora che visiva. Prendendo coscienza della direzione del suo sguardo, dell’ampiezza e dell’efficacia dei suoi movimenti, l’uomo ha creato un vocabolario di immagini attive che spontaneamente si è applicato alla sua prima geometria. Quasi tutte le nostre azioni semplici e sapienti, dice Simon Weil, sono delle applicazioni di nozioni geometriche. L’universo in cui viviamo è un tessuto di relazioni geometriche e la necessità geometrica è quella dalla quale siamo condizionati come creature rinchiuse nello spazio e nel tempo.

Decostituire queste geometrie, le loro architetture, liberarle dalle loro strutture fisse, per attivare processi morfologici, entropie energetiche e di informazione, rivolgimenti fenomenici di ordine tellurico; sinergie associative, topologie dell’identità e della differenza proprie delle catastrofi Thomiane; genealogie disequilibranti, archeologie e geologie destrutturate; produrre tutte queste deflagrazioni, frantumazioni e riassetti micro e macro strutturali della materia e dei suoi elementi che agiscono nell’universo naturale, anche come materializzazione dialettica e storica dell’esserci significa entrare nello straordinario fluire di quelle correnti magmatiche subcrostali offerte da Giovanni Leto ad un diverso vedere della pittura. Ad un vedere, cioè, che scarta ogni omologazione precedente, per legittimare un linguaggio espressivo a se stante e una visione dell’arte dilatata sui confini di una memoria che ha frantumato la storia, rendendola detrito, deriva, accumulo caotico e tuttavia armonico, silenzioso e struggente, in cui la luce, rivelata e diffusa, rafforza i suoi connotati magici.

Così Leto, abolendo le normative cronologiche della storia dell’arte, le sue resse teoretiche, nonché le ricorrenti tautologie estetiche e ogni altro attribuzionismo formale, sia pure attinente al più recente passato, fonda un proprio linguaggio nel quale la realtà storica del tempo costituisce una nuova memoria dell’arte.

Avviene con ciò quanto è avvenuto, secondo Nietzche, per la nascita della tragedia nuova: il principio di individuazione distrugge l’arte come “lieta speranza”.

Puntando sulla vita delle forme: il mondo delle forme, le forme nello spazio, le forme nella materia, le forme nel tempo, Leto anima la superficie del quadro e lo deconcettualizza nel senso che lo predispone al flusso di un immaginario visivo decantato da ogni possibile ricordo in cui la percezione non è ancora la rappresentazione, o una rappresentazione, ma uno schema motorio attraverso il quale l’occhio organizza l’immagine e le sue diramazioni. Organizza cioè quei materiali (carta, stoffe, colle), che non appartengono più, come qualcuno sostiene, alle reminiscenze dell’Informale, dell’Arte povera, del Collage, del Decollage, ecc., ma che sono invece lo straordinario portato di una tecnica e di una poetica che si riappropria del pensiero mitico, dell’irrazionale, dell’asimmetrico, per fornire all’arte, ai suoi mutamenti, una diversa nozione di tempo e di spazio entro cui riformulare un più appropriato evento pittorico.

Così, l’alta chirurgia di questo fantasioso assemblatore innesta due divergenti entità ottiche: dal semplice accostamento si passa all’attraversamento reciproco di più immagini manipolate e frapposte, che foggiano un nuovo insieme figurativo, cioè lo scorrere ascensionale, da oscure voragini, di quelle colate compatte, silenziose, plasticamente emergenti, molto tattili, ma anche isostaticamente uguali ed equilibrate, con evidente tendenza ad uscire fuori dal quadro, a divenire sporgenza, accentuazione plastica, formazione orogenetica intesa anche come rottura ottica della tradizionale costruzione dell’opera.

Da questa rottura ottica, nasce dapprima il sommovimento tettonico, impetuoso e accattivante, da cui deriva presto il movimento, un andamento pacato, quasi soffice e denso di luminosità eteree, di mobilità percettive, di traslazioni sensoriali ma privi di significati ontologici, metafisici, come di ogni ascendenza cosmogonia.

Ciò che interessa in definitiva Giovanni Leto è la suggestiva ipotesi di un nuovo accadimento della pittura, superando l’originaria nozione storica di se stessa e del colore; di un colore cioè (il giallo, il nero, il rosso, il bianco, il grigio) dato nella sua pura essenza, affinché non descriva più la pittura ma la natura dell’interno: humus neutrale e forte offerto all’impareggiabile fascino di quelle terre di nessuno.

Bibl.: Francesco Carbone (a cura di), Giovanni Leto / Di una nuova memoria dell’arte, ed. Marcel Duhamp – I Mignon d’Arte 2, Caltanissetta, 1989