Filiberto Menna

SOTTOSUOLO DEL LINGUAGGIO

Filiberto Menna

 

 

Questa nuova proposta critica sui rapporti tra pittura e scrittura non può rimandare a due precedenti immediati e cioè alla mostra “Pittura-Scrittura- Pittura” tenutasi nel 1987 a Erice per iniziativa dell’Associazione culturale “La Salerniana” e curata da me, da Fulvio Abbate e da Matteo D’Ambrosio e “Passages: scrittura-pittura” a cura di Luciano Caramel per la Galleria dei Banchi Nuovi di Roma nel 1988.

.la tesi ericina era piuttosto semplice anche perché ricalcata, per così dire, da una osservazione diretta dei fatti: tra la seconda metà degli anni cinquanta e la prima metà degli anni ottanta la relazione tra scrittura e pittura registra una oscillazione pendolare. Mentre negli anni cinquanta la pittura tende alla condizione della scrittura (da Caporossi a Towombly, da Novelli a Perilli all’Accardi…), negli anni recenti le diverse declinazioni di un’arte come scrittura sembrano percorrere il cammino inverso e orientarsi verso una definizione pittorica dei segni.in mezzo, lungo l’intero arco degli anni sessanta e settanta, si accampano le esperienze incentrate più direttamente sulla scrittura, a cominciare dalla poesia visiva.

Queste oscillazioni rispondono, naturalmente, ad esigenze complementari di natura espressiva e comunicativa: la pittura, nel momento in cui si orienta verso la polarità della scrittura, accogliendo nella propria struttura sintattica elementi eterogenei come la lettera, la parola, la frase, sposta, sia pure in maniera non decisiva, il centro del proprio discorso verso il polo comunicativo proprio per la maggiore determinazione semantica del linguaggio verbale. L’artista cioè avverte l’esigenza di una maggiore oggettività, o, almeno intende dare notizie più determinate delle proprie intenzioni espressive.

L’oscillazione della scrittura verso il polo della pittura esplora un percorso contrario, indaga sulle possibilità che il linguaggio possiede di discendere in profondità negli strati più segreti del soggetto e riportarne in superficie le ragioni, determinate e sudeterminate, che lo muovono nella realizzazione dell’opera. Il passaggio dal segno verbale al segno pittorico,o, meglio, da una struttura a dominante verbale a una struttura a dominante pittorica, rappresenta senza dubbio il transito verso una maggiore indeterminazione, una sorta di sprofondamento in quella zona, in qualche modo eterogenea al senso e alla significazione, che il pittore francese Marc Devade indicava come il luogo dove s’incontrano i ritmi del gesto pittorico e i toni dei colori in uno stadio anteriore alle forme storicamente determinate della pittura.
Riprendo, allora, una distinzione che proposi parecchi anni addietro (in occasione della mostra “La Scrittura” del 1976 alla galleria “La Seconda Scala” di Roma), di tracciare una linea orizzontale coincidente con la comunicazione corrente e di individuare uno spazio del “più”, che si dispone al di sopra della linea, e uno del “meno”, che si dispone al di sotto, si può dire che le esperienze recenti dell’arte come scrittura, sempre più orientate verso la polarità pittorica, si situano tutte nello spazio del “meno” in quanto tendenti ad assottigliare il quoziente semantico della parola e della frase e ad ispessirne, invece, la fattura, l’aspetto figurale.

La scrittura diventa un’altra cosa: segno astratto, Ghirogoro, arabesco, geroglifico, richiamando, in ogni caso, l’attenzione dell’osservatore su se stessa, sulla propria consistenza materiale, pittorica, appunto, opponendo una sorta di opacità alla trasparenza della comunicazione verbale.

Riprendo, allora, una distinzione che proposi parecchi anni addietro (in occasione della mostra “La Scrittura” del 1976 alla galleria “La Seconda Scala” di Roma), di tracciare una linea orizzontale coincidente con la comunicazione corrente e di individuare uno spazio del “più”, che si dispone al di sopra della linea, e uno del “meno”, che si dispone al di sotto, si può dire che le esperienze recenti dell’arte come scrittura, sempre più orientate verso la polarità pittorica, si situano tutte nello spazio del “meno” in quanto tendenti ad assottigliare il quoziente semantico della parola e della frase e ad ispessirne, invece, la fattura, l’aspetto figurale. La scrittura diventa un’altra cosa: segno astratto, Ghirogoro, arabesco, geroglifico, richiamando, in ogni caso, l’attenzione dell’osservatore su se stessa, sulla propria consistenza materiale, pittorica, appunto, opponendo una sorta di opacità alla trasparenza della comunicazione verbale.

E tuttavia (un punto, questo, assolutamente fondamentale, un insostituibile tratto distintivo) ii nuovi segni conservano sempre un sia pure minimo legame con la loro origine verbale, a testimoniare senza riserve la loro continuità con le esperienze scritturali degli anni settanta ( quelle che sono state indicate con il termine di Nuova Scrittura per distinguerle delle declinazioni storiche della Poesia visiva, concreta, ec.).

 Anche queste declinazioni scritturali si disponevano nello spazio del “meno” con l’intenzione esplicita, sperimentalmente perseguita, di procedere a una desemantizzazione del linguaggio verbale, disarticolato nei suoi elementi della lettere, la parola e la frase: “I tratti pertinenti dei significanti (scrivevo nella introduzione al catalogo della mostra sulla “Scrittura” del ’76) vengono messi in crisi dalla proliferazione di tratti non distintivi; la comunicazione si nasconde dietro una rete fitta di cancellature, da cui affiorano alla superficie, come un iceberg semantico, qualche frammento significante; la mano riafferma i propri diritti sulla scrittura introducendo, con le deformazioni soggettive che essa reca con sé, una quantità di rumori che intralciano la comunicazione: la chirografiafa regredire (o almeno tenta) i segni dalla discontinuità alla continuità, dal piano del convenzionale e dell’arbitrario a quello di segni motivati, sovradeterminati: con l’intento apparente di imitare la scrittura, ne inventa una totalmente altra, situata in una zona intermedia tra pulsione e discorso”.

Mi pare estremamente significativo, del resto, che Renato Barilli nel “Viaggio al termine della parola. La ricerca intraverbale” (Milano 1981), riprendendo un tema svolto nel ’76 a un convegno di Orvieto, faccia il punto sullo stato di salute della poesia e sottolinei l’esigenza diffusa di “scavalcare lo spazio esaurito della frase e e portarsi a lavorare al di sopra o al di sotto di essa”.

Rivolgersi al “sotto della frase”, continua Barilli, “vuol dire rivolgersi al suo ingrediente essenziale, la parola, senza più rispettarne l’intangibilità, ma, al contrario sottoponendola a fratture, segmentazioni successive, che potranno consistere con lo scinderne il corpo radicale, il nocciolo lessematico, dalle appendici morfologiche, oppure, con interventi via via più selvaggi, nello scandirne le sillabe, o nell’isolarne i singoli fonemi, e infine superare la soglia della pertinenza linguistica”.

Il superamento di questa soglia implica, con tutta evidenza, lo sconfinamento in altri ambiti disciplinari, e tra questi il il campo della pittura. I protagonisti della ricerca intraverbale, tutti di estrazione letteraria, tentano il superamento della pertinenza linguistica, restando ancorati, però, fondamentalmente, al linguaggio verbale, laddove gli autori di estrazione visiva sono più immediatamente disponibili a sconfinare nell’ambito della pittura, stabilendo un diretto trai-d’union tra la esplorazione dello spazio del “meno” degli anni settanta con la esperienza attuale, in cui lo stesso spazio viene indagato con strumenti linguistici risultanti da una contaminazione sempre più spinta tra verbale e pittorico.

Vorrei insistere su questo aspetto delle nuove esperienze scritto-pittoriche: il recupero della soggettività e l’adozione di segni che rivelano indubbie relazioni con l’eredità segnicà-gestuale dell’arte informale non è una concessione agli orientamenti revivalistici postmoderni e tantomeno alle lusinghe di un recupero del soggetto in chiave di micromitologiepersonali, narrative, fabulatorie.

Vale, qui, la continuità, che abbiamo già sottolineato , tra l’analiticità delle ricerche di Nuova Scrittura degli anni settanta e quella (meno dichiarata, certamente, ma pur sempre presente) delle nuove esperienze scritto-pittoriche, che attingono sì a un repertorio linguistico legato agli automatismi caldi dell0arte informale, ma li sottopongono a una sorta di processo di rallentamento e di raffreddamento, per controllarne meglio il funzionamento e discendere, con essi, nelle profondità del soggetto. 

Luciano Caramel, nella sua introduzione al catalogo della mostra “Passages” è stato molto esplicito, su questo punto: vorrei, pertanto, lasciare a lui la parola di chiusura con una citazione, forse un po’   lunga, ma che per la sua decisiva giustezza, rientra perfettamente nell’economia di questo testo: “Si insiste su tutto ciò per limitare l’eventuale, e tutt’altro che ingiustificato, raccordo di siffatto slittare della scrittura nelle plaghe della pittura col più generale liberarsi dell’analiticità e della sistematicità nel flusso dell’emozione e dell’espressione, e quindi nel colore e nel gesto, che ha contraddistinto l’arte del dopo concettuale, fino alla scoperta dei valori selvaggi ed all’abbandono ad una divagante, eccitata narrativa. Per complessità di atteggiamento, irriducibilità a indirizzi monodici, fedeltà alla sperimentazione, e per un’indefinibile quanto ben avvertibile aura, quanti hanno coltivato in passato la scrittura non sono né dei converti ti né dei neofiti, non avendo , abbandonato l’inclinazione alla investigazione dei meccanismi interni ed esterni del linguaggio e non avendo d’altro canto optato senza riserve per un registro operativo che non può essere il loro”.

Bibl: Filiberto Menna, Francesco Gallo (a cura di), Sottosuolo del linguaggio – Scrittura Pittura Scultura, Ed. I tascabili dell’Arte, Circumnavigazione IV,  Bagheria, 1989.